Roberto Bianchin, autore del libro e coautore del libretto racconta l'opera che da venerdì va in scena a Venezia
Il destino di questo libro, nato come un
omaggio alla città e alla memoria, è quello di tornare ogni dieci anni.
Nel 1996 era stato un piccolo editore veneziano a cogliere il valore del
racconto. A trent'anni dall'alluvione che aveva messo in ginocchio
mezza Italia e profondamente ferito Venezia, Filippi aveva pubblicato
"Aqua Granda", di Roberto Bianchin.
Prefazione di Gian Antonio Cibotto,
già autore di scritti sull'alluvione del Polesine, e fotografie di
Gianfranco Tagliapietra. Dieci anni dopo, quando l'anniversario era il
quarantennale, ci tornò su il Comune di Venezia: nuova edizione,
prefazione di Massimo Cacciari, illustrazioni di Fabio Visintin. Per i
cinquant'anni, dopodomani, il libro nasce nella sua terza vita: lo
pubblica Marsilio (prefazione di Cristiano Chiarot, contributi di Valerio Cappelli, Paolo Petazzi e Luigi Magistro),
assieme al libretto dell'opera tratta dal testo con la quale la Fenice
inaugura venerdì la nuova stagione. Una produzione che parte da lontano,
e che lontano è destinata ad arrivare dopo le repliche veneziane:
richieste sono già arrivate dal Giappone e dalla Germania.
«Il primo contatto con la Fenice risale a tre anni fa» racconta Bianchin,
giornalista di professione e uomo di teatro per passione «quando sono
stato chiamato dal sovrintendente Cristiano Chiarot, che già iniziava a
pensare all'anniversario dell'alluvione». La proposta, sulle prime,
lascia l'autore interdetto: «Del mio libro c'era già stata una riduzione
teatrale, una pièce con Roberto Citran. Ma quando mi hanno chiesto di
scrivere un libretto sono rimasto perplesso: non lo avevo mai fatto.
"Provaci", mi hanno detto».
Dalla prima stesura si è arrivati alla
messa in versi: «per quella, ha lavorato Luigi Cerantola, davvero non
avevo idea di come si facesse», ma in realtà - dice Bianchin - «la cifra
di questo lavoro è quello di un'opera collettiva, nella quale si è poi
inserito naturalmente il regista Damiano Michieletto, e collettiva è una
parola che mi piace molto». Il risultato «è un libretto che mi
assomiglia molto e mantiene il punto di partenza del libro, la scelta di
raccontare il dramma di Venezia da un'angolazione specifica,
Pellestrina, perché è da Pellestrina che il mare è passato, è lì che
l'onda ha sfondato». Nel 1966 Roberto Bianchin aveva 17 anni: «Allora le
scuole il 4 novembre erano chiuse, quindi ero a casa mia, al Lido, e al
mattino dal letto sentivo il rumore del mare, un rumore mai sentito
prima, un ruggito pieno di rabbia».
La curiosità è troppa: il ragazzo vuole andare a vedere quel che
succede, deve rinunciare alla bicicletta perché le strade sono allagate e
raggiunge a piedi i Murazzi: «Ho visto l'onda arrivare e ho cominciato a
fuggire, era alta almeno quattro volte me. Sono scappato verso quella
che allora era campagna, l'onda mi ha preso e sono finito nell'acqua
fino alla cintura, ma senza farmi portare via». A Pellestrina sfonda;
mare forza 8, vento a 120 nodi, onde alte da otto a venti metri. Da lì a
San Marco c'erano 18 chilometri: «Il mare perse forza e questo salvò la
città, pur sommergendola come mai era accaduto prima». Pellestrina allora è il punto di osservazione speciale,
attraverso gli occhi di Ernesto Ballarin, il figlio di pescatori che
voleva fare il cameriere: «Mentre nel libro c'è una voce narrante, la
mia di autore, in teatro questa non c'è: i sette personaggi dialogano,
il coro è la voce della laguna. E mentre il libro è in italiano, l'opera
ha passaggi in dialetto nella calata tipica di Pellestrina». I
personaggi sono tutti reali:Ballarin, la madre e il padre, gli amici, il
farmacista, il maresciallo dei carabinieri Giovanni Cester, che del
disastro tenne un diario annotando tutti i dati che hanno consentito al
giornalista Bianchin di farsi cronista del passato per raccontare, da
scrittore, la sua storia. L'opera è nata in teatro, nelle prove e nei
confronti «grazie anche a Damiano Michieletto, una persona meravigliosa.
Lui che è un numero uno si pone nei confronti degli altri con dolcezza,
ha una grande sensibilità e una disponibilità infinita». C'è
naturalmente l'orgoglio di andare in scena, da autore, alla
Fenice che è un tempio mondiale e che è anche il teatro della sua
città: «È stato fatto un investimento importante, che rinsalda il
rapporto fra la città e il suo teatro».
Certo, mai Bianchin avrebbe pensato a un simile cammino per il suo
libro: «L'ho scritto per una ragione molto semplice, perché su
quell'acqua granda una storia non era mai stata raccontata. O meglio
c'era Obici, che aveva scritto "Venezia fino a quando", ma io volevo
raccontare quel giorno e quei giorni da un punto di vista diverso».
Fu un disastro naturale di enorme portata: «Non poteva essere previsto
ma nemmeno escluso, risalendo indietro nei secoli si sa che ne erano già
accaduti e anche se tra l'una e l'altra risultano intervalli
lunghissimi, oggi noi non possiamo dire di avere messo Venezia in
sicurezza. Cinquant'anni dopo la città è ancora indifesa, se arrivasse
oggi un'onda come quella del 1966 non credo che il Mose, con tutti i
soldi che è costato, cambierebbe le cose, tra cassoni che non si alzano,
ruggine e conchiglie». Paura per il debutto? «La generale di mercoledì è
decisiva. È riservata al pubblico di Pellestrina, se "Aquagranda" passa
questa prova è fatta».
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